Sono i figli di tutti, del nostro tempo e delle sue illusioni. Sono ciò che hanno visto, e respirato. Di questi ragazzi, di questa generazione ha detto il Papa ieri: «Hanno paura della definitività, che appare loro irrealizzabile e opposta alla libertà». Irrealizzabile, perché se si guardano attorno la vedono ormai raramente. Ma, soprattutto, opposta alla loro libertà. Libertà, hanno imparato, è seguire l'inclinazione e il desiderio, nell'imperativo morale a "realizzarsi". E dunque la definitività del matrimonio appare loro una irrazionale prigionia cui consegnare la propria vita. Un tagliarsi le ali, una promessa forse generosa, ma quanto credibile, se ciò che è vero è solo ciò che "si sente", e ciò che si sente scivola via in un attimo e non è mai garantito?
Nell'orbita della cultura dell'attimo fuggente si fatica a sposarsi, e difficilmente si ha il coraggio di avere figli. Si è come in bilico. Non si può appoggiarsi sul vuoto, fare un passo in quello che sembra il nulla. Ma il «sì» definitivo, dice il Papa a questi ragazzi, «non è in contrasto con la libertà, ma rappresenta la sua più grande opportunità».
Un'adesione totale, un impegno per sempre che coincida con la libertà, può apparire a questa generazione un controsenso. Non lo è, certamente, nella concezione cristiana della libertà, secondo la quale il più libero degli uomini è quello che aderisce totalmente al disegno di Dio (e quanto all'amore fra l'uomo e la donna, al disegno antico della Genesi : «I due saranno una cosa sola»). Ma - potrebbero obiettare i figli delle famiglie «allargate» o ristrette, quelli che non hanno avuto una famiglia cristiana e quelli che preferirebbero non averla avuta, e gli indottrinati del laicismo di massa - questa singolare libertà cristiana, questa libertà che coincide con l'adesione alla volontà di Dio, cui in molti non crediamo, che non ci convince, per quale motivo concreto, tangibile dovrebbe essere umanamente ragionevole? Perché quel «sì» per sempre dovrebbe essere addirittura conveniente per la nostra felicità?
Perché - dice il Papa - «nella pazienza dello stare insieme per tutta la vita l'amore raggiunge la sua vera maturità». Il riconoscersi, il cercarsi, il non poter fare a meno, e tutto ciò che passa sotto la voce «amore», l'amore romantico che colma gli attimi fuggenti: un niente, o solo l'inizio di qualcosa di molto più lento, di faticoso, di più grande. Dei figli che nascono, dell'ansia e della speranza condivise - della stanchezza ogni sera. E rabbia e liti e delusioni, e insofferenza. La tenerezza poi, la prima volta che l'altro malato ti sembra quasi un tuo figlio. Vecchi, tornare bambini in un nipote. E perdonare, alla fine, tutto. Amore, dice il Papa, è la pazienza di tutta una vita. Non è un attimo, e non fugge. Si riconosce alla fine, voltandosi indietro. La più grande delle scommesse in cui un uomo e una donna possano giocarsi - se non si accontentano di poco.
(Avvenire - 19/11/2006)
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