C'è un apporto che il continente nero può dare al resto del mondo La sua cultura, i valori e perfino i ritardi: un pamphlet lancia la sfida
L'Occidente ha bisogno dell'Africa
Di Anne-Cécile Robert (da l'Avvenire del 28-2-2006)
«Il bene più grande che l'Africa può offrire alla nostra comune umanità nell'angoscia è il suo grande ritardo, quello stesso ritardo che manca all'Occidente industriale per divenire umano», afferma il politologo Boubou Hama. Infatti, fatte le debite proporzioni - e usando un paragone volutamente provocatore -, i superdotati si annoiano finché non si riconosce il loro talento! Più semplicemente, questo famigerato «ritardo» attribuito al continente nero - con maggiore o minore degnazione - esiste solo se si aderisce all'idea che l'Africa debba seguire la stessa via dei Paesi occidentali. Al di là dell'incredibile arroganza che consiste nel pensare che il capitalismo occidentale sia la forma più avanzata della storia e l'espressione più compiuta della ragione umana, le difficoltà economiche, sanitarie e sociali incontrate dall'Africa invalidano questa idea comunemente diffusa. Difatti, se si dà prova di un po' di apertura mentale nei confronti della storia e delle società africane, il fallimento dello sviluppo in Africa e il disastro dell'adeguamento strutturale non sono più allora la manifestazione di una debolezza del continente, bensì di un rifiuto del modello economico e sociale dominante. Il «ritardo» sembra così l'espressione di un altro modo di concepire i rapporti umani e la distribuzione delle ricchezze.
La resistenza dell'Africa ci ricorda allora questa libertà fondamentale in pericolo: poter costruire liberamente il proprio destino. Questa irriducibile originalità (oltre a essere probabilmente un fattore più realistico di uscita dalla crisi, per un continente in difficoltà) ci riporta al modo in cui pensiamo i rapporti internazionali e la padronanza globale dei grandi equilibri del pianeta. Malgrado i discorsi «politicamente corretti», la possibilità di essere diversi regredisce. Si ha il diritto di essere «diversi» unicamente se ciò non infastidisce, oppure a fortiori conferma, il sistema. Lo mostra l'ostinazione con cui, per esempio, si relegano gli afr icani di talento nel campo artistico - nel quale eccellono, del resto -, negando loro ogni altra possibilità di apporto intellettuale. Tutto è incredibilmente impostato, preconfezionato, e il diritto di allontanarsi dai sentieri tracciati dagli organismi internazionali è pagato a caro prezzo, in quanto si è messi al bando rispetto all'ordine mondiale, oppure si subiscono sanzioni economiche.
Vengono chiamati «demagoghi» coloro che vogliono preservare spazi di controllo pubblico o i diritti sociali; tutte le politiche che si allontanano dalla doxa liberista vengono definite irrealistiche, con un'arroganza tanto vertiginosa quanto i danni causati da queste politiche ovunque nel mondo, nel Nord come nel Sud, e in particolare in Africa. Attraverso le sue tradizioni, la sua effervescenza e la sua creatività contemporanee, attraverso il rapporto di dominazione esemplare in cui si trova, il continente nero sembra il simbolo di questa diversità messa in pericolo dal capitalismo mondializzato.
Il pianeta non può funzionare in modo ragionevole se una parte di esso tace e subisce. Il mondo ha bisogno dell'Africa perché ha bisogno di essere intero. Inoltre il continente nero, attraverso i suoi valori, attraverso una forma di saggezza che appartiene solo ad esso, e attraverso le sue pratiche sociali, apre orizzonti nuovi in un momento in cui il modello capitalistico mondializzato cumula i danni e assoggetta i popoli. L'Africa contribuisce già, ma passivamente e senza approfittarne, a oliare gli ingranaggi della mondializzazione, offrendo per esempio le sue immense ricchezze. Ma è sul piano spirituale e in termini di civiltà che essa potrebbe svolgere un ruolo realmente alla sua altezza, poiché l'umanità - mondializzata di forza - si inaridisce e distrugge il suo patrimonio. Come riassume opportunamente il cineasta senegalese Moussa Sene Absa: «L'Africa è il serbatoio dei valori futuri».
Gli africani hanno certamente qualche conto da regolare con loro stessi e in particolare con le loro élite, che contribuiscono a questo assordante silenzio di civiltà. È la loro storia. Rivendicare l'umano che è africano e mostrare il contributo dell'Africa all'universale - ecco una posta in gioco sottolineata dal Forum sociale africano. Infatti si può andare incontro agli altri solo se si ha in qualche misura il senso della propria identità.
L'Africa dovrebbe avere più fiducia in se stessa, mentre l'Occidente "predatore" dovrebbe fare meglio i suoi conti. La vera cooperazione è altrove e implica che l'Occidente stesso accetti di essere aiutato. Per Serge Latouche, questo principio è indubbio: «Accettando di sollecitare i consigli dell'Africa, elemosinando la sua assistenza (...) testimonieremmo che la via che gli esclusi delle periferie del Terzo Mondo hanno cominciato ad adottare costituisce una soluzione molto rispettabile alle aporie della modernità; e che a dispetto della vistosità delle nostre cianfrusaglie, non abbiamo da offrire loro un equivalente in termini di calore umano e di senso. Se potessimo, forse baratteremmo la nostra povertà con la loro ricchezza. Per fare questo, invece di esportare il nostro immaginario materialistico, economicistico e tecnicistico, occorrerebbe iniziare a decolonizzarlo».
In questa ricerca che si svolge come una lotta contro il tempo, il continente nero ha da dire la sua, per se stesso e per tutti, in quanto esprime un'innegabile differenza e una capacità di resistenza auspicabilmente duratura. Né afro-pessimista, né afro-ottimista, ma afro-incondizionato. Non si tratta di addossare all'Africa il peso di un nuovo messianismo, ma di battersi per ciò che mette in gioco la sopravvivenza di tutti noi in quanto specie, ossia la possibilità di essere liberamente, e se possibile su registri diversi, suonando ciascuno lo spartito che ha scelto.
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